La società pubblica ha autonomia patrimoniale perfetta e sui soci non grava alcun obbligo di partecipare alle spese di necessarie alla liquidazione né di far fronte ai debiti della società.
La sentenza 6.8.2021 n. 776 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ribadisce un principio ovvio, valevole sia in ambito civilistico (Cass. Civ., I, ord. 2.2.2021, n. 2280) sia, a maggior ragione, in ambito pubblicistico, laddove le partecipazioni pubbliche in tanto si giustificano in quanto siano necessarie al perseguimento di interessi pubblici.
Il principio dell’autonomia patrimoniale perfetta delle società pubbliche, confermata dal loro assoggettamento alla disciplina fallimentare in caso di crisi d’impresa (d.lgs. n. 175/2016, art. 14, comma 1), trova inoltre maggiore giustificazione nelle regole di contabilità pubblica e nei principi di economicità e di efficienza dell’azione amministrativa.
Sotto questo profilo, il CGA smentisce una recente e piuttosto eccentrica pronuncia della Sezione Imprese del Tribunale di Catania, secondo cui la società pubblica sarebbe una “società di scopo”, e per ciò solo i suoi debiti graverebbero in via pressoché automatica sugli enti soci, su cui i creditori privati potrebbero senz’altro rivalersi.
Al contrario, secondo il CGA, i creditori privati possono, se del caso, attivare i rimedi previsti dalla normativa fallimentare, ma non possono rivalersi sugli enti soci; né la stessa società può pretendere alcun tipo di soccorso finanziario da questi ultimi per far fronte alle sue passività.
Sotto un altro profilo, il CGA, mutando orientamento rispetto alla precedente sentenza n. 530/2019 e all’ordinanza n. 529/2020 (ne avevamo parlato qui), riconducendo le ipotesi di recesso a quelle previste dalla normativa civilistica, esclude che l’ente socio possa ricorrere ad un recesso ad nutum di fonte pubblicistica, a maggior ragione quando la società si trova in liquidazione (art. 2437bis c.c.).
In senso critico può osservarsi che gli articoli 20 e 24 del TUSPP (d.lgs. 175/2016) prevedono in generale la possibilità di procedere alla dismissione della partecipazione anche attraverso la “soppressione”: la genericità della previsione può indurre a ritenere che la prevalenza dell’interesse pubblico al risparmio di spesa giustifichi che la “soppressione” della partecipazione corrisponda, in effetti, ad una fattispecie riconducibile al recesso ad nutum. In questo senso sembra deporre, comunque, la giurisprudenza contabile consolidata.